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Giovanni Cima

La storia
Successe al padre nel dominio senza contrasti, e nel 1405 ebbe conferma del vicariato. Militò per Innocenzio VII nella guerra contro Ladislao re di Napoli, laonde fu compreso nel trattato di pace del 1406. Andato nell'anno istesso con nobile comitiva a Viterbo per visitare il pontefice, volle questi che lo accompagnasse a Roma, e che nel solenne ingresso gli portasse davanti il gonfalone della Chiesa; di più, in benemerenza dei servigi resi alla santa Sede, gli donò la rosa d'oro. Gregorio XII lo elesse senatore di Roma nel 1407, ed entrò in officio il dì 3 di giugno; ma dopo due mesi, essendo stato costretto il papa a fuggirsene, desiderò che Giovanni lo scortasse fino a Viterbo: ed ei lo compiacque, rinunziata prima la sublime dignità nelle mani di Pietro Annibaldeschi. Mentr'era in Viterbo ebbe notizia della morte del figlio, per la quale dovè tornarsene a Cingoli. Trovò la Marca Anconitana tutta in sconvolgimento perchè l'antico rettore, Lodovico Migliorati, pretendeva di mantenersi a forza in officio e di non cedere il potere al vescovo di Montefeltro destinatogli a successore, istigandolo a ciò Ladislao re di Napoli: e Giovanni postosi nell'animo di tornarvi la pace, si fece mediatore tra Lodovico e Braccio Fortebracci che sosteneva vittoriosamente le parti della Chiesa contro di lui, e riuscì nell'intento. Voltosi allora il Fortebracci ai danni degli Smeducci, che aveano seguite le parti dell'avversario e dato ricetto in Apiro ad alcune masnade di venturieri congedati da lui, andò ad assalire quel castello, e lo prese; poi lo cedè al Cima per 5.000 fiorini d'oro, avendolo fors'egli segretamente incitato alla preda. Ma gliene incolse danno, perchè sospettando che Braccio potesse tentare qualche impresa contro di lui, assoldò a sua volta li stessi mercenari che il Fortebracci avea vinti, e quando combattevano per il Migliorati e quando dipoi per li Smeducci; e li mandò a presidiare il castello di Apiro. Irritato Braccio per tali atti, venuta la primavera del 1408, entrò con grosso numero di soldati nel territorio di Cingoli e si spinse fin presso le mura della città: ma quivi se gli fece incontro Giovanni Cima, il quale venne con lui a sanguinosa battaglia che durò intiero giorno, e con sua piena vittoria, essendogli riuscito di respingere il nemico fino a Roccacontrada. Ma durante questa, liSmeducci, aiutati dai Malatesta, riuscirono a sorprendere Apiro, e a tornarselo a devozione; la qual cosa decise il Cima a riconciliarsi colFortebracci. Fu tra i patti che dovessero uniti andare al riacquisto di quella rocca; ed infatti ci si portarono forti di numeroso stuolo di agguerriti guerrieri il dì 12 ottobre 1408, e la espugnarono nonostante che fosse valorosamente difesa. Vi ristabilì Giovanni il suo dominio, ma non per questo quetarono le cose: e per quattro anni durò tra lui e li Smeducci una di quelle piccole guerre, così fatali e dannose perchè piene di rappresaglie, di stragi e di prede continue. Nel 1412, essendosi forse determinate le parti a rimettersi al giudizio del rettore della Marca, che altrimenti non saprei dirne il perchè, e forse ancora per intimazione fattane da Gregorio XII, Apiro fu dalCima depositato nelle mani di Carlo Malatesta; il quale finì col restituirlo ad Antonio Smeducci, per essere stata, assai probabilmente, a lui favorevole la sentenza. Nè sarebbe fuori di proposito il ritenere che Giovanni fosse indotto a più miti propositi dalla ribellione dei suoi vassalli di Staffolo, ribellione che domò col ferro e col fuoco senza pietà. Nello scisma dei tre pontefici egli si dichiarò a favore di Giovanni XXIII, dopo che per opera di Gregorio XII ebbe perduto il dominio di Apiro; e da quel papa ebbe conferma di tutti i privilegi concessigli dagli antecedenti pontefici, con bolla data in Firenze il dì 25 aprile 1413. Morì nel giugno del 1422, incerto se di morte naturale o di veleno propinatogli da una crudele consorte: nè mancano scrittori che narrino come dessa, fattolo assopire con un narcotico, lo facesse ancor vivo chiudere nel sepolcro. Scrissero di lui i suoi sudditi, quando più non potevano temerne ed avevano anzi interesse a fare aggiudicare al Comune i suoi beni, che esercitò potestà tirannica, facendo porre a morte per i più lievi motivi; che le carceri ed i sotterranei dei suoi castelli teneva ripieni d'infelici che vi faceva gettare a capriccio, o per aver pretesto di confiscare i loro beni; che obbligava le genti a lasciarlo erede; che infine occupò prepotentemente molte possessioni e cose mobili del Comune: fatti questi sui quali può esservi molta esagerazione, ma che in qualche parte erano veri, avendosi prove, per documento del 1425, che avea costretto una tale Paoluccia vedova di Niccolò Tosti a lasciarlo suo erede, mentre per l'ultima volontà del marito avrebbe dovuto legare al monastero di s.a Caterina di Cingoli quei beni che per quell'atto si volevano rivendicare.

Si sposò una prima volta la figlia di un Antonio Simonetti da Jesi.





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